Il Fanciullino di Giovanni Pascoli – A cura di Tommaso Di Brango

Ricordati che la poesia vera fa battere, se mai, il cuore, non mai le mani.

G. Pascoli, Il fanciullino

Premessa

Il fanciullino è un saggio di Giovanni Pascoli. Pubblicato per la prima volta nel 1897 sulla rivista “Il Marzocco”, venne modificato e ripubblicato due volte dal suo autore: la prima volta nel volume Miei pensieri di varia umanità (1903), la seconda in Pensieri e discorsi (1907). Si tratta dello scritto che meglio di ogni altro ci permette di comprendere la poetica – ovvero: le idee intorno alla letteratura e ai suoi rapporti con le altre arti e con la vita – di Giovanni Pascoli.

A monte del discorso contenuto nel Fanciullino ci sono le tesi di James Sully, filosofo e psicologo inglese che nel 1895 aveva pubblicato il volume Studies of childhood. In questo testo, Sully sosteneva che nella nostra mente persiste, per tutta la vita, una componente che viene direttamente dall’infanzia. In pratica: qualcosa del bambino che siamo stati rimane in noi lungo l’intero arco della nostra esistenza, anche se non ce ne rendiamo conto.

Pascoli sottoscrive questa tesi e afferma che la componente infantile di cui parla Sully è all’origine della poesia. Quest’ultima, dunque, può essere considerata come l’irruzione del bambino che siamo stati nell’adulto che siamo diventati.

Lo stupore del fanciullino

Noi tutti, afferma Pascoli, ci siamo allontanati dalla condizione infantile e, soprattutto, abbiamo avuto fretta di farlo. Un bambino, infatti, non è autosufficiente: non può prendere decisioni in modo autonomo e dipende in tutto e per tutto dagli adulti. Un uomo maturo, invece, ha il diritto e il dovere di assumersi le sue responsabilità e di fare le sue scelte: una condizione che ci fa sentire realizzati e che ci da’ la sensazione di essere liberi da vincoli imposti da altri].

È un meccanismo fisiologico e, sotto certi aspetti, sano. Ci sono anche, però, alcuni momenti della nostra vita adulta in cui appare chiaramente che la sensazione di controllo che noi sentiamo di esercitare sull’esistenza è più apparente che reale. Si pensi, per esempio, a quando abbiamo paura del buio: ci sembra di vedere qualcosa che si muove anche se, probabilmente, non c’è niente e, ciononostante, abbiamo delle reazioni emotive che non riusciamo a controllare; oppure, ancora, si pensi a quando ci innamoriamo: un’altra persona esercita su di noi un potere che non riusciamo a fronteggiare e, oltretutto, proviamo un turbinio di emozioni, sensazioni e desideri che facciamo fatica a tenere a bada. Ecco: in questi – come pure in altri – momenti noi tutti, secondo Pascoli, torniamo a sperimentare la condizione del bambino, ovvero la condizione di chi non può esercitare il suo dominio sulle cose. Ma questa condizione ha un preciso riflesso psicologico, ovvero lo stupore.

La parola stupore viene dal latino stupor, -oris, che a sua volta è un derivato del verbo di terza coniugazione stupere, che letteralmente vuol dire stupire ed etimologicamente indica l’atto di star fermo, immobile con atteggiamento stordito e attonito. Lo stupore, insomma, è l’atteggiamento di chi rimane sorpreso da qualcosa che non si aspettava e lo spiazza. Si può essere stupiti dal comportamento insolito di una persona di propria conoscenza. Ma, in effetti, si può anche rimanere stupiti dal fatto che esiste qualcosa anziché il nulla – e questo stupore, che è sempre misto a una profonda inquietudine, è all’origine, per esempio, della filosofia].

Ora, proprio perché rimaniamo stupiti – con tutto ciò che questo verbo implica –, noi tutti, in questi momenti, rimaniamo anche zitti anche se vorremmo dire tantissime cose. Nei momenti in cui abbiamo più paura, per esempio, non solo non riusciamo a parlare, ma tratteniamo addirittura il fiato; e gli innamorati, si sa, sono goffi e a tratti ridicoli, e la loro comunicazione si riduce spesso a un balbettio di frasi più o meno improbabili. A differenza nostra, però, i poeti riescono a dar voce allo stupore, cioè riescono a esprimere con le parole l’irrompere del fanciullino interiore.

È per questo, scrive Pascoli, che il poeta è capace di dire quel che tutti hanno sulla punta della lingua ma nessuno riesce a esprimere; ed è per questo, possiamo aggiungere, che spesso, per dire cose belle alla persona amata, ci si rivolge proprio alle parole dei poeti e dei cantanti: perché il solo modo per venir fuori dalla nostra balbuzie consiste nel chiedere le parole giuste a chi è stato capace di tirarle fuori al posto nostro. La poesia, dunque, secondo Pascoli, è l’espressione verbale della voce del fanciullino.

Il valore educativo della poesia

Se il poeta sa dire quel che ognuno di noi ha dentro di sé è evidente che le parole dei poeti possono farci capire meglio chi siamo, cosa c’è nel nostro animo ecc. Ma chiediamoci: i poeti si limitano a fare questo? La forza della poesia consiste semplicemente nel fatto che è capace di leggerci dentro? Pascoli risponderebbe di no. La poesia non si limita a leggerci dentro: la poesia, casomai, ci tira fuori.

Quando ascoltiamo la voce dei poeti, infatti, capiamo meglio chi siamo. Nel momento in cui capiamo meglio chi siamo, però, non siamo più gli stessi di prima: siamo, anzi, persone più coscienti, più consapevoli. In pratica: più mature. Per questo motivo, Pascoli ritiene che la poesia, più che limitarsi a descriverci, si spinga addirittura a educarci, ovvero a farci sviluppare in direzioni che, da soli, non saremmo stati in grado nemmeno di immaginare].

In questo, Pascoli sembra quasi echeggiare il concetto hegeliano di Aufhebung, ovvero l’idea secondo cui per andare avanti, nella vita e nella storia, occorre tornare continuamente alle radici del proprio essere e prenderne coscienza. Per diventare degli adulti veri, insomma, non bisogna aver fretta di prendere la patente o di trovare lavoro (che comunque sono cose assolutamente sane e sensate): bisogna, piuttosto, cercare di capire com’è fatto il bambino che ci portiamo dentro.

Tutto questo, però, secondo Pascoli, può accadere solo a condizione che il poeta non lo faccia apposta. La poesia, infatti, non nasce con l’intenzione di insegnare qualcosa a qualcuno; nasce, piuttosto, dal bisogno di tirar fuori qualcosa che si ha dentro, di esprimere un’urgenza interiore (e, siccome quest’urgenza è condivisa anche da chi poeta non è, la poesia può permettere a tutti di conoscere un po’ meglio sé stessi).

Se però il poeta si mette a scrivere a tavolino, con l’intenzione di convincere le persone a fare o a non fare qualcosa o con l’intenzione di trasmettergli valori morali, religiosi ecc., semplicemente non si sta comportando da poeta. Si starà comportando da pedagogo, da retore, da imbonitore, da precettore ecc., ma di certo la sua non sarà vera poesia. Quest’ultima, infatti, non vuole convincere nessuno e non produce applausi di sorta. La vera poesia, scrive Pascoli, più che le mani, è in grado di far battere il cuore].


[Si pensi, per esempio, al fatto che gli adolescenti hanno fretta di raggiungere i diciott’anni. Perché ce l’hanno? Risposta: perché così potranno prendere la patente, avere la macchina, muoversi in autonomia ecc. Potranno, insomma, sentirsi, in qualche misura, padroni della propria vita. Per lo stesso motivo i giovani desiderano il lavoro e sentono come un problema il fatto che dipendono dai genitori: vogliono essere in condizione di fare le loro scelte senza dover rendere conto a nessuno. [Vedi O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1907. [Platone e Aristotele hanno affermato che la filosofia nasce da thauma, parola greca che in italiano può significare sia “meraviglia, stupore” che “sconcerto, angoscia”. Lo stesso Pascoli, del resto, nell’incipit del Fanciullino, cita il Fedro di Platone, nel quale si fa riferimento a “Cebes Tebano” che chiede a Socrate una parola in grado di placare la paura della morte provata dal bambino interiore che ciascuno di noi porta con sé. [Il verbo italiano educare, del resto, deriva dal latino educare, composto dalla particella e- (“da, di, fuori”) e da -ducare per ducere (“condurre, trarre”). L’arte di educare, dunque, consiste nel condurre o trarre fuori quel che una persona ha la potenzialità di diventare. Vedi, di nuovo, O. Pianigiani, op. cit.[C’è da dire che di questa singolare consonanza Pascoli, probabilmente, non era consapevole. “Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto. E quindi, né c’è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia e… non poesia. Sì: c’è la contraffazione, la sofisticazione, l’imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi”, G. Pascoli, Il fanciullino, a cura di G. Agamben, Milano, Feltrinelli, 2019, p. 53. È da notare la vicinanza addirittura lessicale alle teorie estetiche di Benedetto Croce, che pure distingueva tra poesia e non-poesia. Va detto, però, che il discorso crociano aveva una sistematicità sconosciuta al Fanciullino di Giovanni Pascoli. Non per nulla, i due non si amarono granché: Croce ritenne Pascoli un poeta morboso, teso a dar sfogo ai suoi personali languori, mentre Pascoli pensò alla stesura di un saggio con cui ribattere all’Estetica crociana che però, a causa della morte precoce, non riuscì a portare a termine.

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